Il cervello umano è in continua evoluzione dalla gestazione fino alla morte. Le neuroscienze ci dicono che la mente di un essere umano attraversa dei così detti “periodi critici”, il primo dei quali è alla formazione del feto, poi nei famosi primi 36 mesi di vita e di nuovo in adolescenza. Fino ai 25 anni il cervello umano è infatti ancora molto plastico, nel senso che è influenzabile nella sua organizzazione strutturale e funzionale, a diverse modifiche in relazione agli stimoli interni ed esterni che riceve. All’inizio della adolescenza si ha anche un nuovo periodo di sinaptogenesi, cioè di creazione di nuove connessioni tra le cellule del sistema nervoso. In un momento specifico per ogni area corticale, inizia contemporaneamente il processo di pruning sinaptico, cioè lo sfoltimento delle sinapsi scarsamente utilizzate. Questo rimodellamento cellulare segue la logica “use–it-or-lose-it” (usalo o perdilo). Restano quindi e si stabilizzano solo quelle connessioni che vengono effettivamente utilizzate. Al contrario, le connessioni meno utilizzate, vengono definitamente eliminate. Durante il periodo di maturazione, quindi, è importante che arrivino continui stimoli ambientali adeguati a un corretto sviluppo del cervello. Se, infatti, la plasticità cerebrale è un bene, perché vuol dire che il cervello “recupera” alcune funzioni e alcune specializzazioni grazie ad una sorta di spinta a riorganizzarsi, dall’altra è un rischio quando subentrano fattori di stress, una stimolazione scarsa o peggio ancora dannosa, e soprattutto l’interferenza con sostanze che alterano il funzionamento cerebrale, ad esempio le sostanze stupefacenti.
Dati recenti (Commissione Parlamentare per l’Infanzia e l’Adolescenza, 2018) collocano l’inizio dell’uso di droghe mediamente intorno ai 14 anni, età in cui come abbiamo visto il cervello è nella sua massima espansione ma anche vulnerabilità. L’incontro iniziale con le sostanze giunge, quindi, in un periodo della vita molto particolare e complesso, in cui oltre a cambiamenti nella neurobiologia si affiancano le crisi psicologiche proprie dell’età: autonomia e dipendenza entrano in conflitto e l’adolescente cerca di costruire la propria identità e di ristrutturare il proprio concetto di sé, uno dei compiti di sviluppo fondamentali nell’adolescenza. L’uso di sostanze può allora diventare il modo con cui il ragazzo fronteggia o evade questi momenti critici dello sviluppo della sua identità e un aiuto per gestire sentimenti di inadeguatezza e stati emotivi e psicologici negativi, tra cui l’ansia, i vissuti depressevi, la rabbia, la paura e l’incertezza. Essendo, d’altronde, l’identità dell’adolescente in costruzione e ancora non ben definita, il rischio è che l’uso di sostanze diventi un vero e proprio elemento che definisce il Sé dell’individuo, l’elemento attorno al quale l’adolescente costruisce le sue relazioni sociali, organizza il tempo libero e modifica la sua scala di valori.
Numerosi studi evidenziano la necessità di attivare interventi di diagnosi precoci (early detection), in modo da poter ridurre i tempi di latenza tra l’inizio d’uso ed il primo contatto con i servizi di cura (in media 5,5 anni). Tutto questo al fine di interrompere quanto prima un’eventuale progressione verso forme di dipendenza e attivare interventi terapeutici specifici, riducendo anche il rischio di morte per overdose e quello di contrarre e trasmettere infezioni correlate all’uso di droga. Nel lavoro di prevenzione all’uso delle sostanze stupefacenti grande attenzione viene posta ai fattori di rischio e ai fattori di protezione, i primi sono quelli che possono portare ad una traiettoria di abuso di sostanze e contribuiscono all’iniziazione e alla continuazione dell’uso; i secondi sono quelli che riducono il rischio di iniziazione ed una prosecuzione dell’uso delle sostanze e che promuovono lo sviluppo sano dell’adolescente. Spesso gli uni e gli altri corrispondono: in un’ottica bio-psico-sociale i molteplici contesti sociali, tra cui la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari e la comunità, così come i fattori individuali (atteggiamenti, credenze e caratteristiche di personalità) e i fattori genetici possono essere sia elementi protettivi che di rischio e risulta quindi fondamentale lavorare su tutti questi fronti sia nell’ambito della prevenzione che dell’intervento.
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